Lugi Zoja mi ha regalato un viaggio importante. Nella sua opera “Il gesto di Ettore - Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre”, Zoja mi ha portato a braccetto nello scoprire il concetto di paternità, dalla preistoria alla storia, incontrando i miti greci, i romani, arrivando all’800, al ‘900, le grandi guerre, i giorni nostri. Ho affrontato questo viaggio sapendo quasi nulla di psicoanalisi, senza strumenti, senza bussola, affidandomi interamente al mio Virgilio. Ho quindi capito quello che ero in grado di afferrare, forse perdendo pezzi importanti. Ma il viaggio, per quanto lungo, l’ho portato a termine.
Zoja ha una scrittura fluida, di facile comprensione, per niente ripetitiva, accessibile anche a chi non è addetto ai lavori. Col suo modo di scrivere mi ha portato all’affrontare temi importanti che proverò qui ad analizzare.
Ma prima di ciò, ci sono alcune premesse che Zoja mi ha imposto di seguire. Sono come dei patti su cui tutta la sua opera si basa. Ho accettato queste premesse, anche se difficili da digerire. Inizio quindi con questi punti saldi su cui non enterò in merito e non criticherò, per non violare le regole con cui Zoja mi ha chiesto di giocare:
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la figura paterna è un artefatto culturale. Ogni società e ogni periodo storico ha avuto un concetto di paternità differente.
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la figura materna non sarà mai analizzata, né per supportare la figura paterna, né per contrastarla. né per contestualizzarla. Zoja la esclude da ogni equazione; è ignorata. Le ragioni che Zoja usa per questa forzatura sono che questa figura è ingombrante, molto discussa in altri testi, e che potrebbe oscurare il soggetto principale dell’opera.
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la figura paterna deve avere obiettivi, spesso imposti dalla socità e dalla cultura di riferimento. Per Zoja, questi sono simbolicamente identificati in tre funzioni rituali: elevazione, benedizione, iniziazione del figlio.
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per quanto esista il singolo, qui si parla in modo astratto di categorie.
Partiamo dalle basi. Tra le righe, Zoja definisce la figura paterna come colei che sceglie il figlio, quindi colei che si avvicina ad un bambino e decide di intraprendere con lui un percorso. Ma con quale ruolo si inizia il percorso? Qui interviene la società, l’economia, i modelli, e più in generale, la cultura.
Uno dei concetti su cui Zoja si sofferma spesso è quello da lui definito come il paradosso del padre: “Esso può essere riassunto così. Di regola, la madre sarà valutata come madre per quello fa con il figlio: compito grande, certo, ma chiaro e identificabile. Invece il padre non è padre solo per quello che fa con il figlio, ma anche per quello che fa con la società: e le leggi che regolano questi due spazi di azione non solo le stesse”.
Non essendo una figura aprioristica (come la madre), le insidie che il padre si troverà ad affrontare saranno tante: Il giudizio da parte della società, ma anche da parte dei figli stessi; la messa in discussione del ruolo; il mostrarsi con un’armatura per sembrare ciò che non si è, e quindi mostrarsi come autorevoli, capaci, forti. Tra l’altro, l’armatura che si indossa, col passare del tempo si incolla alla pelle e non si riesce più a distinguere ciò che si è da ciò che si finge di essere. Quando questo avviene, le conseguenze sono tremende e scavalcano il nucleo familiare. Tramite un numero di passaggi abbastanza ristretti, Zoja ci porta infatti a guardare le conseguenze di questo affezionamento alla propria armatura, come la nascita del patriarcato e del capitalismo.
Ho scoperto che la psicologia identifica almeno due fasi per il processo formativo del figlio: uno stadio primario, in cui il figlio viene a far parte della sfera familiare, e uno stadio secondario, in cui si passa alla società. Zoja sostiene che per millenni, questi due stadi hanno avuto attori ben codificati: la madre per lo stadio primario, il padre per lo stadio secondario.
Questo stadio secondario nella storia ha avuto significati molto differenti, associati a funzioni talmente codificate nella socità da diventare riti. Nel mondo greco, Ettore benedice il figlio perché possa essere più forte di lui. Prima della rivoluzione industriale, il ruolo paterno era iniziatico: insegnare il priprio lavoro, farne un membro attivo della società. Nel XX secolo, l’obiettivo principale è stato quello di elevare i figlio ad una classe sociale maggiore.
Si arriva quindi ai giorni nostri, dove tutto sembra collassare. Dei tre obiettivi paterni, nulla è rimasto. L’elevazione sociale ora è affidata alla scuola, all’università; la benedizione è morta assieme a Dio, alla nascita e alla caduta delle dittature del ‘900, alla crisi e alla post crisi economica, culturale e sociale della famiglia; E infine l’iniziazione del figlio, ora demandata a miti e modelli globali, oppure a gruppi politici o social, alle bande, ad altro ancora, purchè estraneo al nucleo famigliare.
Questo stadio secondario vacilla. Per Zoja, le conseguenze di trovano in giovani persi, immaturi, esclusi, fragili. Quindi spesso anche violenti e pericolosi, sia da soli e sia in gruppi. Ci si inventa riti iniziatici tra coetanei e l’elevazione passa tramite un rinnego delle figure genitoriali.
“Correndo verso lo stadio primario, la psicoanalisi ha alimentato l’obesità della madre e del privato, contribuendo all’anoressia del padre e della società. Essa deve ora tornare al padre, come Fred aveva fatto agni inizi. E deve trattarlo come problema collettivo e storica, poiché la società e storia sono dalla notte dei tempi residenza paterna.”
Oggi la figura del padre non esiste più. È morto il padre, viva il padre! Il suo ruolo manca. L’assenza si nota. I figli, quando serve, ricercano il concetto di paternità altrove. “Il ritiro paterno è reso irrevesribile dalla fine dei riti e dei miti. E questa non ha a che vedere con il patriarcato o con il matriarcato, ma sopratutto con la modernizzazione. […] E la modernità non è reversibile”.
Ho affontato questo percorso seguendo le regole di Zoja, senza chiedermi se i punti di partenza fossero validi. In un mondo di pura astrazione, la conclusione di Zoja sembra essere assulutamente corretta. La morte del padre esiste perchè la società ha messo in crisi i ruoli degli individui. E gli individui il cui ruolo sociale esiste soltanto come artefatto, sono i più fragili, e i primi a saltare. Ovviamente questo passaggio non è certo indolore. Le violenze, i femminicidi, gli estremismi sono analizzati da Zoja come una fuga all’indietro e/o una fuga in avanti.
Quindi ora siamo qui. Speravo ci fosse una vita di uscita, un ambiente di confort in cui trovarsi, con ottimi punti di riferimento. Invece, niente manuali, niente soluzioni, niente modelli.
Speravo già di poter diventare Ettore: nascosto dentro ad un elmo, pronto per la guerra, guardare mio figlio. Togliermi l’elmo per farmi riconoscere. Prendere il figlio tra le braccia e, alzarlo al cielo, benedirlo: “Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: È molto più forte del padre”. Per poi rimettermi l’elmo, uscire e farmi trucinare da Achille, col corpo legato al suo carro, trascinato attorno a Troia perché tutti possano vedermi anientato.
Oppure sperare di essere Ulisse: girare per anni il mondo noto. Conoscere dee bramose di essere scaldate nei loro letti. Dopo oltre 10 anni ricordarmi di una casa a cui forse ho sempre desiderato tornare. Uccidere tutti i Proci con cui la mia compagna si era allietata nella attesa del mio ritorno e da cui generò il dio Bacco. Infine riappacificarmi con un figlio che fondamentalmente è` cresciuto all’ombra del mio mito. Per poi scappare di nuovo verso fantastiche avventure.
E invece sembra che qui ci sia bisogno di ripartire dall’inizio. Quindi pongo delle domande e concludo.
Serve proprio avere un ruolo? Perché serve questa investitura da parte della società? Non riesco proprio a vedermi con un’armatura fissa, imposta, stretta. La mia cultura ha anch’essa dei miti. Sceglierei quelli anti-paterni. Lindo Ferretti cantava “Non fare di me un idolo, mi brucerò. Se divento un megafono, m’incepperò. Cosa fare e non fare non lo so.”. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Scelgo di non essere Ettore. Come scrive Gustav Falke nella quarta di copertina, “Ci sono due tipi di padri che non seguono Ettore. Quelli che non si tolgono l’elmo e quelli che non l’hanno mai indossato”. Ma siamo sicuri che l’elmo non ci sia già e che non ci stia già stato messo in testa senza essercene accorti? C’è da lavorarci su.
I riti e ruoli della figura paterna sembrano essere frutto della società in cui si vive. Zoja sembra indirizzarmi verso una figura statica, dove i paletti del perimetro sono già stati tutti piantati. Un campo di gioco è stato già tutto regolamentato. Ma magari non è cosi. Si può partire dal piano del desiderio e far sì che questo percorso sia un divenire? Se poi serve proprio ricercare la paternità, che questa stia lontana dagli elmi, dai falsi miti e i dettami della società. Se poi questa richiede troppa mascolinità e testosterone, si proverà assieme a divenire insetto, per poi volare via.