“Non rida: lei si ferma qui!” “Ma come sta dicendo sul serio?!”

Non avrei mai pensato di andare in ospedale prima della data del parto. Oggi sono undici giorni. Stavo bene, sto bene e non avrei mai pensato di essere distesa sullo stesso letto per così tanto tempo, avendo pochissime interazioni e non uscendo mai dallo stesso reparto di ospedale. Non c’è aria da fuori: la nostra stanza affaccia sulla sezione della terapia intensiva neonatale e il loro condizionatore punta proprio sulle nostre finestre. Dunque, sempre chiuso. Mi sembra di essere in un una bolla dove passato e futuro spariscono e le giornate sono sospese: vengono scandite dalle visite della mattina, la puntura di Aperina, l’antibiotico, dalla colazione-pranzo-cena, la quiete del sonno, e dopo i pasti e la solitudine della notte quando non si riesce a dormire.

Le visite della mattina includono i monitoragi di almeno un’ora e mezza:

Monitoraggi

Che fortuna avere Baku vicino in questo momento!

Arriva alle 18 puntuale tutti i giorni, non avrei mai immaginato così tanta cura verso di me, mi porta la frutta, alcune volte la cena, il cambio per il giorno dopo ma anche la sua ansia per questa situazione che è più grande di noi. Perché in realtà nessuno dei due avrebbe mai pensato una situazione così. Ci sono anche le telefonate con la famigghia e la sfamiglia, l’amore che sento e il vuoto che rimane dopo ogni chiamata. Poi, il resto è una grande fatica, ogni cosa in questo contesto sembra essere faticosa: andare in bagno, lavarsi i denti, ricordarsi di bere acqua sufficiente per il fabbisogno quotidiano, non perdere le giornate a guardare il soffitto e a seguire le problematiche che succendono ad ogni donna munita di pancione più o meno grande in questo reparto. Sono appena passata in un’altra stanza. In fondo mi piaceva quella di prima, questa meno.

Con le compagne di prima ho imparato a condividere non solo cose materiali, ma emozioni e conoscenza sulla maternità, sul parto e su situazioni più o meno gravi che possono e che sono successe loro. Ci siamo parlate con il cuore in mano, abbiamo pianto ma anche riso e ironizzato sulle nostre esperienze. Ma soprattutto ci condividiamo consigli e preoccupazioni: si cerca di essere solidali e di supportare le donne che non parlano italiano e che sono più impaurite per la difficoltà di compresione. Ma ci sono anche quelle che non vogliono parlare, che si chiudono la tenda per mettere muri alti e impenetrabili, per non avere interazione. La si prende male, sappiamo che non esiste privacy in questo posto e che è difficile perché i momenti di solitudine e sconforto sono molti e spesso anche non prevedibili. Il disgusto di condividere lo stesso bagno e la paura dei germi, dei virus, delle cose piccole di cui non hai controllo. E, poi, il cielo, lo spicchio di cielo che vedi da dentro. È fine giugno e il cielo è spesso blu, ma oggi le nuvole e anche la pioggia.